Il Fascino della (Fashion) Divisa, Pour parler
![](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep/https%3A%2F%2Fbucketeer-e05bbc84-baa3-437e-9518-adb32be77984.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2F4211b0c7-8f0d-4339-a46e-efd16305bcc8_1200x675.jpeg)
Si è appena conclusa la Milano Digital Fashion Week e sui social abbiamo sentito un gran parlare di Zomwear, nuova normalità e personal style, non senza critiche sull’appiattimento della moda, l'astrattismo della moda-concetto (vedi le città "indossabili" di Vuitton) etc. etc. Già da mesi d'altronde ci siamo tutti appassionati di moda, siamo diventati esperti di Armocromia e abbiamo iniziato a vendere un paio di vecchi capi almeno su un’app di second-hand. Personalmente, dopo aver scoperto che il Monòpoli - sì, proprio il gioco da tavolo - si pronuncia Monopòli mi sono un po’ persa e ho distolto l’attenzione.
Le collezioni in passerella hanno provato a risolvere il quesito "come ci vestiremo dopo?": un mix ad hoc di vestiti da indossare dentro e fuori casa, comodi e formali, identitari e confusi il giusto. Mi sto accorgendo, infatti, che a margine di tutto il trend comfy&effortless che il Covid e il 2020 si sono trascinati dietro, si sia affinato molto il modo di acquistare e, in generale, di vedere il fashion: dalla quantità l’attenzione si è spostata alla qualità, dalla scelta alla selezione. Lo dimostra l'impennata del resell e la crescente attenzione sul tema della sostenibilità, entrambe questioni considerate prima di quest'anno appannaggio di fanatici e intellettualoidi della moda. Mi sembra coerente, e alla fine compriamo meno, spendiamo forse uguale, nel migliore dei casi guadagnamo qualcosa, ma ci vestiamo meglio. Forse: un po’ il dubbio rimane.
Mi piace cogliere i segnali e collegarli tra loro, quindi ho cercato di dare un senso al fatto che sia uscito (non in punta di piedi, ndr) il docufilm su Fran Lebowitz, che Zegna abbia coniato un nuovo “stile da Zoom call”, che Miuccia Prada e Raf Simons abbiano realizzato un talk sulla moda, che Rockandfiocc e Andrea Batilla abbiano fatto una diretta Instagram su come trovare il proprio stile – chi mi segue su Instagram ha già avuto qualche anticipazione, altrimenti potete ancora vederla qui – e che io abbia rispolverato “Il senso della moda” del sociologo Roland Barthes per non farmi cogliere impreparata. Un personal disclaimer, non me ne vogliate. Excusatio non petita.
La risposta che mi sono data all’andamento degli usi e costumi, appunto, negli ultimi mesi è che dopo la lunga Quarantena abbiamo iniziato l’esame di coscienza, per farci trovar pronti al "dopo": i più coraggiosi si sono guardati dentro, i più hanno guardato nell’armadio. Chi è stato fortunato ci ha trovato un’identità e tanta voglia di vestirsi per uscire, tutti gli altri solo molto poliestere e qualche domanda esistenziale instaurata dal confronto con le live su Instagram degli influencer-di-qualche-cosa che hanno mostrato ogni bugigattolo delle proprie vite. La verità è che abbiamo tutti qualche scheletro nell’armadio.
La smania della ricerca di un proprio stile è il risultato di questa nuova consapevolezza: che ci sappiamo vestire o che siamo sciatti a seconda di con chi ci compariamo. Poco male. Ad affascinarmi non sono state le corse ai ripari di un armadio tutto da buttare, ma la percezione di sé che sta alla base della questione: “con il tuo armadio devi costruire un racconto che sia funzionale a quello che vuoi che gli altri capiscano di te”, cit. Andrea Batilla, dalla diretta sopra citata. Roland Barthes definiva l’abbigliamento come un vero e proprio linguaggio individuale (la parole Saussuriana, per gli esperti in semantica), e che in quanto tale rappresentasse lo "spirito del tempo". Ancora una volta sembra tutto coerente: in un presente in cui ogni cosa è stata ridotta ai minimi termini, abbiamo reso essenziale anche il nostro modo di vestire, un po’ per difenderci dalla nostalgia della mondanità, un po’ per pensare ad altro, un po’ perché volendo o nolendo siamo diventati più consapevoli - un po' perché incuriositi da questo decluttering di cui tutti parlano.
In risposta alla necessità di trovare un proprio stile alcuni hanno suggerito la ricerca di una fashion uniform, spesso adoperata dalle menti più illuminate dell’ultimo secolo: avete presente lo stile di Miuccia Prada, Steve Jobs e Anna Wintour? Per citarne alcuni. Tutti e tre hanno dei signature look che li rendono immediatamente riconoscibili e per cui, almeno in parte, sono riconosciuti.
![](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep/https%3A%2F%2Fbucketeer-e05bbc84-baa3-437e-9518-adb32be77984.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2F5cdd43ab-ab84-45d5-b540-6503a7235bbe_1280x1920.jpeg)
Furono per primi i Romani a coniare e ad utilizzare la uniformis “una sola forma”, specifico abbigliamento che serviva a riconoscersi parte di un determinato gruppo, in particolar modo utile in guerra per capire a colpo d’occhio chi fosse l’alleato e chi il nemico. Uniforme vuol dire da sempre riconoscibilità, e si fa un attimo a gridare all’icona.
Secondo questa pratica del vestiaire, avere una fashion uniform che definisca il proprio stile significa circoscrivere l’armadio ad una nicchia di capi simili tra loro che facilmente costituiranno degli abbinamenti veloci e adattabili alle occasioni più disparate. Non capi identici, ma vicini quanto basta per essere simili tra loro e, dunque, interscambiabili. Una uniforme personale deve essere per definizione funzionale e versatile, strutturata sulle proprie esigenze e il proprio stile di vita, ma soprattutto concorde a chi si è, al ruolo che si ricopre nella società e a cosa si vuole raccontare di sé.
Un processo lungo e non facile, che con molta probabilità ci porta a fare i conti con noi stessi, con i nostri difetti e con i nostri limiti, ma che, a parer mio, potrebbe portare a un discreto numero di benefit. Si perderebbe sicuramente meno tempo al mattino per scegliere cosa indossare, evitando a piè pari tutti quegli abbinamenti “troppo moda” con cui non sentirsi a proprio agio; Steve Jobs svelò che indossare gli stessi abiti ogni giorno gli permetteva di avere più tempo “utile” per fare cose grandiose. E per fortuna, aggiungerei.
L’armadio sarebbe infatti organizzato secondo un filo conduttore personale, con cui comunicare un’immagine di sé coerente e veritiera col proprio discorso identitario, contribuendo alla riconoscibilità di ognuno. Si butterebbero via meno soldi nell’acquisto di capi fast-fashion a proposito dell’ultimo trend così lontano da noi, prestando invece più attenzione alla composizione dei capi.
Un memento mori finale, l’ite missa est delle funzioni religiose, la morale di Tonio Cartonio mentre scorrevano in sovraimpressione i membri del cast: forse è proprio questo il punto, avere stile non significa essere sempre alla moda, significa essere riconoscibili e riconosciuti in qualcosa, costituire un manifesto personale ante litteram, guidare coerentemente il racconto che si vuole suggerire su di sé.
È il rapporto con noi stessi e con l’immagine che crediamo di lanciare nel mondo a determinare il nostro fascino: scegliere cosa indossare può darci consapevolezza e farci sentire a nostro agio, ma senza autocoscienza non c’è conoscenza.
Forse è tutto questo ciò che intendiamo quando ci riferiamo al "fascino della divisa"?
![](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_lossy/https%3A%2F%2Fbucketeer-e05bbc84-baa3-437e-9518-adb32be77984.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2F2f0face5-5ec4-407d-85a8-453325f9fa4f_240x219.gif)
Mi auguro che il caffè non si sia raffreddato – ma forse stavolta un po’ sì - e che questa domenica sia iniziata col piede giusto, come sempre.
Alla prossima settimana!
@sofiettes
La canzone della domenica: Lewis OfMan - Attitude